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Roche – A fianco del coraggio
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Sembrava tutto finito.
Poi una sera d’estate la rivedo. Sulla testa di nuovo il cappello. Era tornato e si era preso altre parti di sé. Una cura sperimentale. Si doveva vincere ancora una volta.
Il gelato al cioccolato fondente che le piaceva così tanto, quella sera lo offrii io. Andando via le dissi: “Flora se hai bisogno, ci sono”. Ero serio. Ed anche il suo bisogno di aiuto lo era. Mi chiamò 2 settimane dopo.
“Mi accompagni a fare la terapia?”
I soliti 200 km. In quel reparto non ero mai entrato prima. Lì dentro capisci il senso di tutto. Leggi il dolore, che però è sommesso, senti l’odore della paura, la forza della dignità, il suono acuto del coraggio, a volte anche il freddo della resa.
Quegli infermieri non li ho mai visti stanchi. I medici sono sempre di corsa, ma i loro passi non fanno rumore, come sospesi, come in una bolla. A volte ti distrai e perdi alcune loro parole. Pensi solo a cosa ne sarà di chi ami.
“Flower” per me era una continua risorsa. La vedevo sottoporsi a chemio, analisi, tac, controlli senza fine. Ti fai una cultura in così breve tempo. Impari i nomi di farmaci come cisplatino, a leggere i referti, le sigle, il significato di triplo negativo, quarto stadio, secondarismo. Impari anche che quel luogo è senza tempo, quel tempo che per chi ami assume un significato ampio. Dentro ci deve stare tutto. La forza di fare ancora progetti conservando la voglia di vivere. Dopo la terapia, Flower dormiva per tante ore, fino al giorno successivo. Era sempre allegra, si pensava al mese di luglio al mare. Le chiedevo come stesse, ogni giorno. “Sto bene” – diceva.
Ci mise un po’ a confessarmi le sue paure. Perché le aveva ed erano simili alle mie, quasi potevamo sovrapporle. Le sue erano corpo, le mie contorno, combaciavano.
Ad ogni nuovo problema, inventava nuova forza, la rispolverava. Io ingoiavo lacrime e pregavo più forte.
“Non ci voglio pensare alla morte”.
Lei è viva e vera.
Deve badare a sua figlia e senza un uomo nella sua vita è stato tutto più difficile.
“Mi vedo gonfia” - diceva.
“Sei sempre fichissima” - rispondevo.
Non ho mai accettato l’idea di perderla.
Che poi chi lo dice quando scade il tempo?
Il tempo è ora, adesso. È dentro una risata, in un viaggio, in un momento di sconforto, in un gelato al cioccolato fondente. I cicli di terapia.
“Fino a quando durerà?” - chiedevamo ai medici.
“Finché ce la si fa” - era sempre la risposta.
50 anni di simpatia e voglia di vivere.
Questo è la mia Flower.
È colei che passa l’aspirapolvere il giorno dopo la chemio, che ti mostra la sua casa nuova che è proprio uguale a lei, allegra e piena di gioia.
Eppure io le conosco le sue lacrime, le sue paure. Sono incartare una ad una, perché preziose. Per ognuna di esse c’è un posto, nascosto, che io conosco. Vado a tirarle fuori, me ne prendo cura e a volte capita che al loro posto nasca una intenzione, un nuovo slancio.
Chi si arrende è finito.
Non si arrende, Flower.
La fine della storia la scriviamo un po’ più là, tra cento estati ancora.
La tac, l’incognita e lei che con il suo passo svelto va incontro alla vita.
Nello zainetto il succo di mirtillo, la scatoletta delle medicine, gli occhiali da vicino che si mette su quelli da lontano. Il suo appassionato buongiorno, ed io che le dico che per me resta una forza della natura.
Ricordo tutti gli occhi che ho incontrato in quel reparto nel corso degli anni, le lacrime discrete di chi inizia e le parole: “a lottare si impara, un dolore dopo l’altro”.
Il dolore che ha tante punte e fa male, nel fisico e nello spirito.
“Guido io, all’andata” - mi dice.
Poi a ritorno la riporto a casa come se lei fosse una stella che nessuno vede, ma che c’è