Patchwork
Abbiamo sempre giocato con le parole. Bigliettini colorati con pezzetti di frasi, appunti lasciati per casa con pensieri ironici, provocatori, che mettevano il buon umore. Faccine sorridenti, disegnate accanto a sillabe e a trattini. Il suo sorriso continua a provocarmi l’effetto come di un sortilegio, specie quando socchiude la bocca. Come se mi si fermasse il tempo: peccato che da un po’ durano poco. Le si scorgono parte degli incisivi e lei mi appare come la materializzazione della gentilezza. Eppure, non fa altro che sminuire la sua naturale grazia. Quando le scrivo “incanto dei miei giorni”, mi ribatte con “cecato per la vita intera”. Ho perso il conto delle volte in cui mi ha detto di avere le patate sugli occhi. In verità asserisce che quando mi sono innamorato di lei, non solo avevo le patate sugli occhi, ma tutta la piantagione del nostro vicino, quella che Franz coltiva di fronte casa nostra.
Non facevamo altro che punzecchiarci con le nostre lingue: il mio dialetto e il suo tedesco.
Dopo il controllo decisivo, la nostra gioia si ridusse a pezzi, aveva bisogno di rattoppi, di ricuciture. La sua, di riparature terapeutiche.
Il suo sorriso si trasformò in un grumo di tensione e quando un giorno provai a farla sorridere, con le lacrime sul volto, mi lanciò in faccia la sua paura, strozzata e ridotta in una domanda: «ma lo vuoi capire che è tumore?». Io mi afflosciai sulla poltrona in salotto, distogliendo lo sguardo che cadde sul tappeto appeso alle mie spalle. Rimase impalata, davanti a me. Avrei voluto piangere. L’osservai in un lampo e mi è apparsa fragile, con quegli occhi suoi bisognosi. Dolci. I miei occhi nei suoi. Non so come sia stato possibile, ma ho sentito il mio cervello dare uno schiaffo al cuore, e lo rianimò: all’istante. Senza girarmi, allungai la mano e presi un paio di biglietti, tra quelli che stavano impilati sul tavolinetto. A tastoni afferrai la matita lì accanto. Poi, usai la mia gamba come appoggio e iniziai a scrivere velocemente. Nel frattempo la scrutavo. Aveva deciso di non piantarmi lì da solo e notai che, invece d’essere incuriosita, sembrava arrabbiata. Mi alzai di scatto e sfilandoli come figurine, cominciai a buttare in aria, a uno a uno, quelli lasciati in bianco. Lei mi guardava incupita. Come se non avessi preso sul serio ciò che mi aveva appena detto. Foglietti verdi che svolazzavano per aria. Dopo un attimo, cominciai a leggere a voce alta e con enfasi. Con braccio disteso in avanti le mostravo quelli che avevo lasciati per ultimi in mano. «Tu-more». «Tu-fragole». «Tu-mirtilli». Poi mi avvicinai delicatamente, con occhi lucidi e un sorriso innamorato. Presi il suo volto tra le mie mani e le sussurrai: «Tu-more?... Tu non more: tu vivi per noi».
Un abbraccio liberatorio ci legò, mentre sentivo le nostre cellule intrecciarsi con il nostro sorriso complice. Intrecciati come i pezzetti colorati dell’arazzo appeso dietro di noi.