Giunge la sera e la città si prepara alla notte. Un uomo cammina pensieroso.
In testa mille domande e poche soluzioni, in mano una busta piena di farmaci. Attraversa non curante la via, solo, giungendo al portone di un palazzo. Entra e sale le scale, giunto alla porta di un appartamento, rimane in silenzio per un istante. Una lacrima scende dal viso, ma l’asciuga subito. Apre la porta ad entra sorridente. Pochi passi e giunto al salone esclama:
«Ciao sorellina!. Come ti senti oggi?»
«Un pò stanca. Oggi non sento più il gusto!» esclama Emy, seduta nella sua “scintillante”, così la chiama Paolo, il figlio di Emy, una lucente sedia a rotelle.
«Ti ho portato i farmaci! Sei pronta per domani?»
«No! Ma non ho scelta». «Domani,» pensa Francesco, domani dovrà accompagnare Emy, per la terza chemio, e sarà la peggiore. Maledetto cancro. È arrivato sei mesa fa e tutto è cambiato.
È cambiata mia sorella, nell’anima e nel corpo, mutilato da una malattia subdola e meschina. È cambiata la casa, ora mia sorella vive con me e mia madre, l’appartamentino in quel vicolo del centro storico senza ascensore era un’inferno. La prima volta in braccio è stata umiliante, ma non mi pesava. Non mi pesa neanche ora, che raccolgo dal freddo pavimento quel poco di cibo che la chemio vomita puntualmente al rintocco delle 13.
Vedo mia sorella far la forte, nascondere la sofferenza e lo deve fare, lo fa mia madre e lo faccio io, per i piccoli, per i suoi figli. L’operazione non l’hanno vista, né vissuta, le lunghe file all’ospedale, gliel’abbiamo evitate, ma la sedia a rotella: No. La testa senza capelli: No. Questi non siamo riuscita a nasconderli e dovevano essere spiegati, con una verità che è una speranza. Perché vanno rassicurati. “Andrà tutto bene”, quante volte l’ho detto. Non è la verità, è la verità che si spera e si vive.
C’è quando riesce a stare in piedi e le giornate sembrano ricordare quelle vissute prima che il male avesse un nome. Si esce e si passeggia, ma puntuale arriva l’istante in cui lei dice con voce provata:
«Sono stanca.» È il segnale, devo prendere dall’auto la sedia, e a turno io e Paolo la scarrozziamo, per le vie del centro.
Un centro storico antico di una città del sud, per un disabile è una trincea, una guerra nella guerra.
Perché oltre a combattere il nemico subdolo che minaccia il suo corpo, c’è un altro nemico, meno subdolo ma altrettanto minaccioso, ed è “l’architettura burocratica”. Quella che impedisce di scavalcare un gradino o salire una scala. C’è quando me ne frego e salgo, determinato e caparbio, ma c’è quando non ce la faccio e si torna indietro.
C’è poi quando sta male, veramente male e allora, non si alza dal letto.
E ci si rimbocca le maniche per sostenerla e accudirla. E qui, tutti sono uniti, la forza della famiglia non cede.
Mi siedo accanto a lei, e prendo un libro. A lei piace ascoltarmi, ed io leggo per lei con piacere. A volte si addormenta e dondola sulla “scintillante”, allora io e mia madre, la portiamo in camera da letto e con delicatezza la solleviamo. Mia madre, stanca negli occhi, ma mai nella braccia e nella mente, non recede di un passo. Come da piccola, le rimbocca le coperte e so lo farà, finché avrà fiato nei polmoni.
È una vita, una come tante, alcuni la definirebbero difficile, altri insostenibile, ma è la mia vita, la nostra vita.
Mi alzo è mattina. «Sei pronta!» esclamo, «sì!» risponde mia sorella. È ora di andare verso quella casa che non pensavi mai di chiamare così. Ma succede. Succede quando i camici bianchi diventano gli amici, i confidenti. Inizia il viaggio, uno dei tanti, inizia con la speranza che diventi presto l’ultimo.